Se state leggendo queste parole vuol dire che i Maya si erano sbagliati. O meglio ha sbagliato chi li ha interpretati male, prevedendo per oggi una fine del mondo che non è arrivata. Per fortuna, così possiamo raccontarvi quanto l’antico popolo centroamericano sia stato importante anche nello sport. Continuate a leggere, vi assicuriamo che questa storia è la fine del mondo (chiediamo scusa, impossibile resistere alla più scontata delle battute).
Andiamo al dunque, si parla di nascita del gioco del calcio. Pensavate che fosse nato nel XVIII secolo in Inghilterra o magari nella Firenze del Rinascimento? I più esperti staranno pensando alle tradizioni di duemila anni fa, l’Harpastum degli antichi romani o la Sferomachia greca. Tutto giusto, sia chiaro. Ma i primi di cui si abbiano prove furono proprio i Maya, circa 3500 anni or sono. Non giocavano a pallone proprio come noi, ma era comunque una prima forma preistorica dello sport oggi più famoso al mondo.
Per la civiltà precolombiana il calcio era roba sacra. E non intendiamo l’odierna fede per una squadra o per un giocatore. All’epoca era una pratica religiosa che simboleggiava la lotta tra elementi cosmici opposti tra loro: il bene e il male, il sole e la luna o il giorno e la notte. Secondo Pier Paolo Pasolini “il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, chissà cosa avrebbe pensato di questi riti sportivi di tanti secoli fa.

Un giocatore di pelota nella riproduzione murale nel Complesso Tepantitla a Teotihuacan (Foto Flickr D. Lobo)
Nel linguaggio Maya il gioco prendeva il nome di “pitz”, e l’atto del giocare si chiamava “ti piztiil” (i giocatori erano i “pitziil”). Da qui la definizione attuale di “gioco della pelota“. Era sempre legato agli astri e accompagnato da cerimonie di sacrifici agli dei, in particolare al dio Sole, divinità suprema intorno alla quale si sviluppavano la vita, il tempo e le stagioni. La pelota nasceva come spiegazione della creazione del Sole e della Luna, avvenuta secoli addietro dopo una partita tra gli dei Hunahpu e Ixbalanqué contro i signori del Sottomondo.
Mentre nel periodo preclassico dei Maya (pre-Cristo) contava di più l’aspetto sacro, nel periodo post classico (dopo il ‘500 d.c.) il rito divenne professionistico e iniziarono a girare soldi e perfino scommesse. Pochi i dati certi sulle regole del gioco, che cambiarono nel tempo e in base alla zona. Sembra che oltre alle gambe si potessero usare anche i gomiti e che per segnare il punto si dovesse far passare la palla attraverso una sorta di anello di pietra posto su una parete all’altezza di metà campo. Anche le donne potevano giocare, anche se si trattava quasi di una battaglia e non mancavano scene di violenza, creando un mix tra calcio, basket e rugby di oggi.
Sulle pareti che circondavano i campi erano dipinte scene mitiche, spesso contornate da un quadrifoglio simboleggiante l’apertura di un portale verso l’aldilà. Leggenda vuole che i perdenti fossero sacrificati alle divinità, ma recenti studi sono arrivati alla conclusione opposta: forse erano i vincitori a essere decapitati, in quanto solo i più forti erano degni di essere sacrificati agli dei.
Il più antico campo di calcio al mondo è stato scoperto sette anni fa presso la città di Merida, nella penisola messicana dello Yucatan. Risale a circa 500 anni prima di Cristo, come ha reso noto l’archeologo Fernando Acevedo. Dimensioni assai ridotte rispetto ai terreni odierni: lungo 25 metri per 4,5 metri di larghezza. Ma c’è un motivo: i campi dovevano essere costruiti all’interno di speciali recinti cerimoniali di pietra e così le misure erano spesso molto diverse.
In realtà nel Centro America sono stati trovati numerosi campi per il gioco della palla. Infatti nei secoli successivi anche gli Aztechi svilupparono un loro tipo di calcio, chiamato “Ullamaliztli” (dal verbo “ollama”, “giocare con la palla”). Ma i primi furono proprio i Maya, che almeno nella scelta di uno sport di successo non si può dire che sbagliarono previsioni.