Dakar, tanto fascino ma tanti morti

Un partecipante passa accanto alla moto di Fabrizio Meoni mentre lo sfortunato pilota italiano viene portato via dall'elicottero sullo sfondo dopo la caduta che l'ha ucciso l'11 gennaio 2005 (AP Photo/Bernard Papon, Presse Sports)

Un partecipante passa accanto alla moto di Fabrizio Meoni mentre lo sfortunato pilota italiano viene portato via dall’elicottero sullo sfondo dopo la caduta che l’ha ucciso l’11 gennaio 2005 (AP Photo/Bernard Papon, Presse Sports)

26 dicembre 1978. Thierry Sabine, pilota di rally e rally-raid francese, dà ufficialmente il via alla prima tappa dell’edizione inaugurale della Parigi-Dakar. Quello che oggi è il rally-raid più famoso e conosciuto del mondo – anche se ormai il nome ufficiale è un semplice e meno evocativo “Dakar” – nasce da un’idea di Sabine, che dopo essersi perso in una tappa della Abidjan-Nizza decise di fondare una gara che facesse il percorso inverso.

Dal 1979 al 2008 il percorso parte sempre in Europa – la maggior parte delle volte proprio a Parigi, come dice il nome della competizione, ma non sempre – per poi svolgersi in gran parte nell’Africa occidentale e arrivare sulle rive del lago rosa della capitale del Senegal. L’edizione 2008, però, deve essere cancellata per via del rischio di attentati terroristici ai cittadini europei in Mauritania, dove sono previste ben 8 tappe della corsa. Dall’anno successivo la manifestazione si sposta, per motivi di sicurezza, in Sud America. Ecco anche il perché del cambio di nome accennato in precedenza, dal “Parigi-Dakar” originario all’attuale denominazione.

Riuscire a evitare gli attentati terroristici, però, non vuol dire che la Dakar sia esente da un tributo di vite umane, anzi. Sono 67, infatti, le persone morte nel rally-raid dal 1979 a oggi: 26 partecipanti, deceduti con incidenti in gara, e 41 tra spettatori, organizzatori, giornalisti e personale di servizio. Tra di loro anche lo stesso ideatore e fondatore, Thierry Sabine, morto il 14 gennaio 1986 a Gourma Rharous, in Mali, nella caduta del suo elicottero dell’organizzazione insieme agli altri quattro occupanti.

Giovedì e venerdì scorso le ultime due pagine di questa tragica lista nera. Prima uno scontro frontale tra un’auto di assistenza della corsa e due taxi, a 10km dal confine tra Cile e Perù, che ha ucciso due persone – l’autista e un passeggero di uno dei due taxi – e ferito altre sette. Meno di 24 ore più tardi è stato il turno del 25enne motociclista francese Thomas Bourgin, deceduto per via di uno scontro con un’auto della polizia nel corso di un trasferimento della 7° tappa.

La Dakar non perdona e non lascia scampo nemmeno a quelli che hanno saputo domarla e vincerla. Tra i 26 piloti morti, infatti, ci sono anche due centauri che in precedenza la Dakar l’avevano vinta: il francese Gilles Lalay, vincitore dell’edizione 1989 e morto il 7 gennaio 1992 in Congo per via di uno scontro con un’auto dell’organizzazione, e il campione italiano Fabrizio Meoni. Dopo aver vinto le edizioni 2001 e 2002, Meoni è scomparso l’11 gennaio 2005 per un arresto cardiaco in seguito a una caduta che gli aveva provocato la frattura di due vertebre cervicali in quello che doveva essere il suo rally-raid, ma si è trasformato, invece, nella sua tomba, al km 184 dello sterrato tra Atar e Kiffa, in Mauritania.

Il fascino del deserto, delle dune, della solitudine, della sfida con sé stessi e le condizioni ambientali al limite è quello che rende la Dakar così popolare e ambita. Ma queste componenti sono anche quelli che hanno portato a questa lunga lista di decessi, con una media di oltre 2 ad edizione. Ha ancora senso, nel 2013, proseguire con una gara del genere, nel momento in cui diventa chiara l’impossibilità, insita nelle caratteristiche della gara stessa, di aumentarne la sicurezza?

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